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1993 – Consiglio pastorale parrocchiale con la guida di mons. Luigi Pignatiello

8 Novembre 1993

Consiglio Parrocchiale Pastorale

con la guida di Mons. Luigi Pignatiello

Relazione del Parroco Sac. Vincenzo Mango su “Prospettive per un piano pastorale parrocchiale”

PREMESSE

La Parrocchia in linea con il cammino ecclesiale diocesano e nazionale deve fare delle scelte pastorali per cui non risulti chiusa in se stessa, in una gestione privatizzata della pastorale.

Una comunità acquista una coscienza ecclesiale nella misura in cui il suo vivere pulsi all’unisono con il sentire della Chiesa.

Il suo cammino deve sopravvivere alla guida di un pastore: deve superare la necessità di una radicale trasformazione di tutto e di tutti quando cambia il parroco.

Il piano pastorale parrocchiale vuole accogliere e rispettare i carismi di ognuno senza alcuna voglia di sincretismo, ma non può privilegiare nessuna esperienza pastorale in modo assoluto, perché la parrocchia non può, né deve identificarsi con alcun Gruppo o Movimento o Associazione

La visione più saggia è di rispondere alla diverse esigenze facendo un progetto, nel quale le diverse iniziative entrano come espressione della varietà e ricchezza dei doni dello Spirito, presenti in abbondanza nella Chiesa.

Per cui non esistono gruppi o movimenti o singoli leaders nella parrocchia come modelli assoluti e totalizzanti, ma tutti con una sola funzione: nella diversità dei doni servire il bene comune per un arricchimento reciproco.

Si è chiamati a costruire tutti insieme, con ampiezza di doni e sensibilità diverse, un progetto comune che tenga conto di tutto il buono che uno ha e può esprimere, sia come gruppi, sia come singoli sacerdoti, ministri o fedeli, e di “situarlo” nel tutto.

Pertanto la suddivisione tradizionale dei tre aspetti: profetico, sacerdotale e regale, che pur ha prodotto una particolare sensibilizzazione e attenzione alla Parola, alla Liturgia ed alla Carità, producendo più dinamicità in una pastorale diocesana e parrocchiale troppo appiattita e tradizionale, va ulteriormente superata.

Infatti, l’eccessiva schematizzazione ha reso evidente una difficoltà, e cioè che in ognuno di questi settori non è possibile programmare e agire indipendentemente gli uni dagli altri.

Le dimensioni della Profezia, della Liturgia e della Carità devono essere tante anime dell’unico cammino della comunità.

OBIETTIVI GENERALI

La Chiesa di Napoli con il suo 30° Sinodo, da dieci anni si è data degli obiettivi generali per la sua pastorale che noi assumiamo in pieno (nn. 24-27)

Realizzare una Chiesa viva comunità di salvezza che sviluppi al suo interno una coscienza di comunione e sia, come tale, segno per i lontani.

Mirare ad essere Chiesa nella convocazione, partecipazione e crescita di salvati attraverso la Parola, la Liturgia, la Carità.

Chiesa che non resti statica ma diventi dinamica, non contenta dei traguardi raggiunti nè di custodire soltanto i fedeli, ma tesa a far risuonare dappertutto la Parola di Dio.

E’ necessario superare la mentalità di rincorrere i bisogni immediati con una pastorale cosiddetta di contenimento che impegna enormi energie, senza poterle incanalare in programmi globali e a tempi lunghi.

Essere Chiesa di partecipazione e comunione tutta intera, ministeriale, attiva e responsabile.

EVANGELIZZAZIONE

L’Evangelizzazione rappresenta una priorità assoluta.

Tutti noi formiamo questa società che ha conosciuto in questo secolo un progresso molto rapido e quasi vertiginoso che non è possibile seguirne i ritmi.

L’uomo si sente a volte talmente esaltato che fa spesso a meno di Dio e, spesso, come accade in queste condizioni, si perde anche il senso della propria identità.

Papa Giovanni Paolo II afferma a tal proposito: ” …è stata proclamata la morte dell’uomo come persona e come valore trascendente”.

Possiamo dire che l’uomo è talmente impegnato nei compiti di edificare la città terrena da aver perso di vista, oppure da aver escluso volutamente la città di Dio, Dio rimane fuori dal suo orizzonte di vita.

Come figli di questa realtà siamo quasi generati e viviamo, e quasi lo respiriamo con l’aria, il clima di una società scristianizzata.

E’ urgente allora suscitare la fede. Nasce da qui l’esigenza di recuperare il primato dell’evangelizzazione (Sin. n.138)

Qual è allora la risposta della Chiesa?: Una Nuova evangelizzazione.

Il Sinodo al n.29 nel quadro degli aspetti generali dà priorità assoluta all’evangelizzazione.

Dice sempre il Papa ..la Chiesa è chiamata a dare un’anima alla società…. e deve infonderla non dal di sopra o dal di fuori, ma passando al di dentro, facendosi prossima dell’uomo d’oggi. Si impone, quindi, la presenza attiva e la partecipazione alla vita dell’uomo.

Occorre una pastorale di risposta a situazioni concrete per uomini realmente viventi in queste situazioni concrete.

Bisogna perciò individuare i bisogni reali di questa nostra comunità parrocchiale perché, come Chiesa, siamo chiamati a realizzare la Salvezza oggi e qui in un presente storico con segni reali e concreti.

Come Gesù che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti. (Mt 20,28)

La prima forma di servizio è l’evangelizzazione, non solo intesa come primo annuncio a coloro che mai hanno ricevuto la Parola della Salvezza, ma soprattutto (perché è il caso più concreto e reale della condizione della nostra parrocchia) intesa come risveglio della memoria evangelica in quanti pur praticando in qualche modo alcuni aspetti della vita cristiana, hanno perduto le motivazioni profonde del loro essere cristiani e membri della Chiesa. (Sin. n.29)

E allora per combattere una cultura rinunciataria e frammentata, ripiegata sul privato o tesa unicamente al profitto, incapace di grandi progetti e di coraggiose spinte ideali (ETC 6) bisogna contribuire ad una nuova forma di inculturazione con l’annuncio del Vangelo che illumina la vita, la cultura, la morale, in un impegno di incarnazione nella nostra realtà con le persone che vivono e fanno la vita locale.

Bisogna suscitare la fede e giungere a personalizzarla: ciò vuol dire contribuire a far raccogliere il messaggio evangelico in tutta la integralità e originalità per tradurlo nella propria vita nel servizio, dopo o insieme ad un processo di conversione continuo e di revisione della propria vita.

E’ necessario stare attenti, avverte l’ETC 6, al pericolo della soggettivazione che avviene infatti quando la verità cristiana non è accolta nella sua integralità e non è chiaramente compresa nella sua origine divina e rivelata ….. ma viene recepita e considerata valida soltanto nella misura in cui corrisponde alle proprie esigenze e soddisfa al bisogno del singolo.

E allora è importante notare che, se c’è da un lato il diritto alla salvezza derivante dalla volontà di Dio che vuole che tutti gli uomini siano salvi, c’è dall’altro la responsabilità del far fruttare il dono ricevuto (vedi la parabola dei talenti). Gesù ha detto perfino Sinite mittere margaritas ante porcos (non gettate le vostre perle davanti ai porci – Mt 7,6).

Sappiamo bene quanto rigorosa era la prassi della Chiesa primitiva nell’accogliere i catecumeni al cristianesimo! L’iniziazione alla fede era articolata con una metodologia della proposta del dono e dell’accettazione. Non sono certamente i criteri selettivi a guidare saggiamente una pastorale moderna, quasi con la pretesa o la presunzione di poter giudicare l’idoneità dei candidati!.

La Chiesa non è fatta di perfetti, ma di poveri in cammino verso la pienezza del Regno!.

Organizzare la speranza è lo slogan del Sinodo che il Santo Padre fece suo nei vari messaggi che lanciò nella visita pastorale fatta a Napoli. La Chiesa che è a Napoli, e quindi in ogni parrocchia, deve indicare le mete prioritarie e gli indirizzi concreti che possono preparare l’avvento del Regno di Dio nella realtà complessa e lacerata di questa città che amiamo. (Sin. n.134)

Bisogna affermare con chiarezza che la verità cristiana non è una teoria astratta. E’ anzitutto la persona vivente del Signore Gesù (Gv 14,6) che vive risorto in mezzo ai suoi (Mt. 18,20; Lc. 24,13 – 35).

Essa “Può quindi essere accolta, compresa e comunicata solo all’interno di una esperienza umana integrale, personale e comunitaria, concreta e pratica, nella quale la consapevolezza della verità trovi riscontro nell’autenticità della vita” (ETC, 9).

CRITERI PER IMPOSTARE LA PASTORALE

Saggezza vuole, quindi, che si tengano presenti alcuni criteri per impostare efficacemente una pastorale che tenga, come scelta prioritaria, l’evangelizzazione, con particolare attenzione a quella degli adulti, nella coscienza di essere in stato di missione (Sin.cap. 2°).

ll Dialogo

La storia della salvezza narra …. il lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione. Così la nostra missione, anche se è annuncio di verità indiscutibile e di salute necessaria, non si presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell’umana educazione, dell’interiore persuasione, della comune conversazione, sempre nel rispetto della libertà personale e civile (Paolo VI, Ecclesiam Suam 42-43:EV 2,193-194).

La Complementarità

Avere la coscienza che l’azione dello Spirito passa attraverso l’azione dell’uomo. L’azione dello Spirito ha sempre il primato senza escludere però con questo la necessità di ogni risorsa umana.

La Chiesa non ha sostituito il Cristo, infatti la missione della Chiesa è la continuazione del mistero dell’Incarnazione, del mistero della Pentecoste (Mons. Valentini – “Molti per una sola missione” – p.22)

La Corresponsabilità

E’ indispensabile tra i membri della comunità ecclesiale, perché tutti si sentano chiamati come comunità alla missione di salvezza: ognuno secondo i propri carismi, gli stati di vita, i ritmi e tempi e il tipo di ministero.

E’ necessario che la Chiesa sia presente attraverso i suoi figli. Tutti i cristiani, infatti, dovunque vivano, sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita e con la testimonianza della loro parola l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel Battesimo, e la virtù dello Spirito da cui sono stati rinvigoriti nella Cresima (A.G. 11).

La parrocchia non può ridursi solo al culto e tanto meno all’adempimento burocratico delle varie pratiche. Bisogna che nasca una parrocchia comunità missionaria di credenti, che si ponga come soggetto sociale nel proprio territorio. (Sin. n. 136)

Ripetere i metodi pastorali del passato di fronte ad una società così profondamente mutata vuol dire condannare la Chiesa al silenzio: non perché quei metodi non siano stati validi o non contengano valori positivi, ma perché essi non “parlano” più ad interlocutori ormai mutati. Se il verbo di Dio si è fatto carne per noi uomini e per la nostra salvezza, allora la sua Chiesa deve sapersi fare “parola” comprensibile a coloro a cui annuncia oggi il dono di Dio. Se la parrocchia è Chiesa posta in mezzo alla case degli uomini, essa vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi (CIM n.34).

Il teologo Vincenzo BO parla di Comunità come di soggetto collettivo dell’azione pastorale (P.P.P. pag. 45).

E’ il Battesimo che ha reso tutti “soggetto” attivo e responsabile della Chiesa. Siamo l’unico popolo di Dio perché battezzati. La Chiesa della Lumen Gentium non è la Chiesa-società perfetta piramidale, al cui vertice era posto l’Ordine Sacro, ma la Chiesa-Corpo Mistico di Cristo, in cui tutti come membra, in forza del Battesimo, formiamo l’unicità del Corpo, con diverse funzioni per il servizio e il bene comune.

La parrocchia ,perciò, ha bisogno dei laici e i laici hanno bisogno della parrocchia: senza la parrocchia i laici sarebbero come figli senza casa. I laici vi trovano lo spazio adatto e il tempo giusto per sviluppare le esigenze della loro vocazione, per esprimere gli stimoli dei loro carismi, per mettere in atto le competenze della loro missione (Mons. Valentini pag. 35-36 – vedi anche A.A. n. 10).

Ognuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio. (1 Pt 4,11).

La Comunione

La comunione è innanzitutto dono dello Spirito per essere partecipi della vita trinitaria. E come Chiesa siamo popolo adunato nell’unità del Padre, Figlio e Spirito Santo (1 Gv 1,3). Siamo stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di sua conquista (1 Pt. 2,9).

Il segno della compiutezza e della dinamicità missionaria della parrocchia è dato dal fatto che essa è una comunità eucaristica, idonea cioè a celebrare l’Eucarestia. Tale idoneità eucaristica si radica nel fatto che la parrocchia è una comunità di fede e una comunità organica, ossia costituita dai ministri ordinati e dagli altri cristiani, nella quale il parroco, che rappresenta il vescovo diocesano, è il vincolo gerarchico con tutta la Chiesa particolare (Ch. L.26).

Nell’ Eucarestia si celebra il segno della comunione in maniera più compiuta, anche se non esclusiva, perché tutti i sacramenti sono la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo, derivante però dall’Eucarestia, che è la fonte e il culmine della vita cristiana.

La parrocchia è fondata su di una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica (Ch. L.36)

La comunione eucaristica però non avrebbe senso, se non riflettesse tutta la sua forza dinamica nell’esperienza vitale del quotidiano, non solo per la santificazione personale, ma anche comunitaria e non solo “ad intra” (con i fratelli nella fede implicita ed esplicita) ma anche ad extra”, nel rapporto cioè con gli altri lontani o non lontani.

La parrocchia è dentro la società non solo luogo della comunione dei credenti, ma anche segno e strumento di comunione per tutti coloro che credono nei vari valori dell’uomo: simile alla fontana del villaggio, come amava dire papa Giovanni, a cui tutti ricorrono per la loro sete (CC. 44).

Bisogna imparare ad essere accoglienti perciò nello spirito della carità. Accogliere l’altro così com’è, con difetti e virtù, nel rispetto, accoglierlo nella nostra vita più che nella nostra casa, tolleranti, discreti, con atteggiamento di ascolto e senza giudicare.

Bisogna imparare ad essere in dialogo E’ una persona di dialogo chi apprezza l’interlocutore, lo ama, ne condivide il desiderio per la Verità e il Bene, desideroso di camminare insieme.

La Liturgia come celebrazione del mistero, diventa celebrazione della vita nel segno sacramentale,. se si riverbera nella vita diventando essa stessa evangelizzazione e se spinge alla carità come verifica della sua efficacia nell’incarnare ciò che si è celebrato.

Vivere ciò che si celebra e celebrare ciò che si vive.

La Liturgia come fatto pedagogico contiene una ricca istruzione per il popolo fedele (SC. 33) e bisogna fare in modo che il senso della comunità parrocchiale fiorisca soprattutto nella celebrazione della Messa domenicale (SC. 42)

Una vita di comunione che non si apre alla missione è ambigua; una missione che non si vivifica nella comunità è equivoca (CC. n. 18).

La natura comunionale della Chiesa richiede un tipo di appartenenza alla stessa Chiesa al punto che qualifica la nostra stessa identità: senza comunione non siamo.

La comunione è realtà che ci fonda; è realtà che ci anima e ci giustifica; è realtà che ci accredita presso gli uomini e dà prospettiva alla nostra missione (Mons. Valentini – pag. 8).

Bisogna imparare ad essere conviviali, dice ancora Mons. Valentini: il ricordo perenne di essere stati commensali alla stessa mensa eucaristica ed il pensiero di dover tornare allo stesso Banchetto dovrebbe impedire rivalità, contese, disamori fra i cristiani: l’unica mensa crea comunione e amore.

Ne scaturisce, quindi, un forte impegno per tutti a camminare insieme, verificare insieme, progettare insieme per correggersi in fraternità, incoraggiarsi, arricchirsi ognuno delle esperienze degli altri, ecc…..

La missione non è opera di navigatori solitari (C.C.M. n. 15). La parrocchia non aggrega persone isolate e senza alcun legame tra loro (L.G. 9).

La competenza

Gesù insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi (Mt 7,29). Le parole di Gesù hanno la forza di un appello personale e di richiamo alla conversione, pongono una alternativa a cui non ci si può sottrarre, perché invocano l’adesione di tutta la persona.

L’autorità viene da Dio. La parola di Gesù ha autorità perché è parola di Dio, di fronte alla quale si è chiamati o a chiudersi o ad aprirsi del tutto.

E’ una parola che chi l’ascolta, l’accolga o no, non lascia più come prima nel bene e nel male.

Ne consegue che chi annuncia la Parola non basta che semplicemente “la conosca”. Anche il diavolo la conosce bene ed ha sfidato Gesù nel deserto proprio a ……suon di citazioni. Ed anche Gesù lì dimostra autorità: vattene, satana! sta scritto: adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi culto (Mt 4,10).

La parola di Gesù vince il Male. La Parola che annunciamo non è nostra. Non può essere, quindi, frutto di opinioni, ne può essere improvvisata.

Bisogna prepararsi, accoglierla ed annunciarla con dignità e rispetto.

Bisogna studiare, lasciarsi coinvolgere da essa, impegnando tutte le energie : intelligenza, cuore, anima. Ma offrirla perché sia accolta non quale parola di uomini, ma come è veramente quale Parola di Dio. (1 Tess. 2,13).

Si richiede una coscienza matura, consapevolezza di essere mandati dalla Chiesa, disposizioni interiori di umiltà, ascolto, contemplazione, attenzione ai fratelli ai quali si annuncia, perché la Parola sia incarnata, storicizzata nella loro realtà e nel loro bisogno.

Annunciarla con rispetto alla Parola ed alle persone, nel cuore delle quali si deposita un germe che ha bisogno di germogliare, fruttificare e provocare conversione per la sequela a Gesù Cristo, suscitare il senso di appartenenza alla Chiesa e quindi all’umanità, il sentire di essere fratelli di tutti perché fratelli di Gesù e figli dell’unico Padre.

Essere competenti significa essere moderni: con questo termine intendiamo tutto il positivo che ci può offrire la scienza e la tecnica, in proporzione alle nostre possibilità, sia a livello di mezzi che di tecniche di trasmissione e di pedagogia.

Non mi dilungo in questo perché gli organi preposti secondo l’organizzazione dei vari settori e servizi pastorali dovranno attivarsi per rispondere alle esigenze di competenza e maturità.

Tutto ciò che serve bene a fare il bene, è bene che sia fatto, con intelligenza e passione!.

La gratuità

E’ l’espressione più impregnante per indicare l’atteggiamento interiore di chi ha la coscienza di essere “dono per” e di aver tutto ricevuto come dono per diventare dono per gli altri come lo è stato Gesù.

L’arroganza o la presunzione di essere superiori, perché si ha qualcosa da dare crea distanza e mina alla base il senso della comunione e si controtestimonia la carità.

Che cosa mai possiedi che tu non hai ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto? (1 Cor. 4,7). Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stato dato dal cielo è la risposta di Giovanni Battista (Gv. 3,27) ai suoi discepoli (che chiedevano spiegazione al loro maestro perché anche Gesù battezzasse) con la quale dichiarava che Gesù poteva compiere ciò che faceva per il potere ricevuto dall’alto.

L’esperienza sempre più diffusa del volontariato è l’ulteriore, forte testimonianza del servizio delle nostre chiese in risposta alle diverse povertà, e un segno della vitalità etica e sociale del Vangelo della carità. Queste energie di volontariato, molteplici e generose anche se non sono sempre costanti e profondamente motivate, potranno consolidarsi attraverso un maturo cammino di fede. Cresceranno così sia l’educazione al senso cristiano e umano della gratuità e del servizio, sia necessario coordinamento delle forze e delle iniziative, nel rispetto della giusta libertà e creatività di ciascuno (E.T.C. n. 48 – E.CEI 4/2780).

Lascio a voi il compito di riflettere su questo testo in modo più approfondito. Sottolineo solo che la povertà (a cui si dirige il servizio della carità) non è intesa solo in senso materiale, ma anche spirituale, culturale, umano, ecc… E’ quindi ogni forma di attenzione agli altri (come ad es. la catechesi) è volontariato.

E inoltre il testo mette in guardia dal ,pericolo di non darsi motivazioni profonde, perché uno dei nei dell’esperienza di volontariato (soprattutto giovanile) è la non costanza.

VEDIAMOCI CHIARO

Dicevo nell’introduzione che i tre settori tradizionali, con i quali si è suddivisa la pastorale in genere e quella parrocchiale in specie, anche se sono programmati distinti, devono interagire

Pertanto le dimensioni: profetica, liturgica e carità, devono essere tre anime dell’unico cammino della comunità

Ecco perché non avete sentito in queste note alcun riferimento specifico a ciascuno di esse, perché quanto detto deve servire a tutte e a ciascuna.

Gli operatori pastorali, pertanto, chiamati al servizio comunitario, pur impegnandosi nel settore specifico, non possono non tener conto anche delle altre due realtà, non solo per quanto riguarda l’attività, ma anche per quanto attiene ai principi che ho descritto e ad altri complementari da me accennati.

Ho detto anche che come scelta prioritaria assoluta in linea con la pastorale diocesana, c’è l’evangelizzazione.

Bisogna non solo ritenere che quanto detto per l’evangelizzazione vale anche per la liturgia e la carità, ma che queste stesse sono Evangelizzazione, cioè Parola celebrata e Parola donata. Perché annunciare la Parola significa annunciare Cristo, celebrare la Parola significa celebrare il mistero di Cristo, donare la Parola significa donare Cristo nella carità.

Sono tre aspetti dell’unico servizio che la Chiesa, e quindi noi, siamo chiamati ad offrire: annunciare, celebrare, donare Cristo.

E’ solo l’aspetto organizzativo che ci impegna in tre fasi diverse, ma l’efficacia dipende dalle stesse motivazioni di fondo, che devono spingere ciascun operatore ad impegnarsi nel suo servizio.

La parrocchia è comunità di fede, di preghiera e d’amore (C.C. 43).

Gli stessi settori, diciamo più tecnici, come il CPAE, la segreteria generale, l’équipe di coordinamento e gli altri vari organismi vivono alla luce degli stessi principi.

La comunità si costituisce sulla base di rapporti vivibili e stabili che legano fra loro i credenti nella comune professione di fede. Gode di strutture e di strumenti altrettanto visibili attraverso i quali si trasmettono agli uomini il messaggio e la grazia di Gesù, Figlio di Dio incarnato (C.C. Cei 15 – E.Cei 3/647).

Tutti i servizi, pertanto. vengono gestiti secondo i criteri della corresponsabilità e gratuità in modo particolare. in una coscienza comunitaria in cui tutti si fanno carico di tutti.

UNA METODOLOGIA DI FONDO

Tutto il piano pastorale parrocchiale va realizzato senza l’ansia di stare a dei tempi assoluti da rispettare, né con la superficialità di chi sta solo a guardare, aspettando nell’inerzia che i frutti vengano o maturino da se.

Noi sposiamo una metodologia che chiamiamo di lievitazione e che stralciamo di sana pianta così come è presentata in maniera semplice, sintetica e chiara da P. Gerardo Cardaropoli in Parrocchia e pastorale parrocchiale (EDB pp. 174-177), in un capitolo intitolato “La pastorale di lievitazione” che al di là di quello che si possa pensare non è e né vuole essere un’altra pastorale che si vuole mettere al di sopra, al fianco o sotto altri tipi di pastorale.

In realtà è una metodologia che assume l’immagine e la fecondità della parabola di Gesù sul Regno: Il regno dei cieli si può paragonare al lievito che una donna ha preso con tre misure di farina perché tutta si fermenti. (Mt. 13,33) ovvero, A che rassomiglierò il Regno di Dio? E’ simile al lievito che una donna ha preso e nascosto in tre staia di farina, finché sia tutta fermentata. (Lc 13,20-21)

Il regno ha inizi modesti ma un grande sviluppo. Il lievito è messo di proposito perché (rapporto causa/effetto) o finché (con il fine, nell’attesa) si fermenti!

Il cristiano mette in ogni cosa l’amore (il lievito) e, non si vede come ma realmente, la pasta fermenta!

LA FAMIGLIA

E’ necessario fare un discorso a parte per la famiglia che rimane il secondo polo (accanto a quello dell’evangelizzazione), di tutto il piano pastorale.

Il Sinodo così afferma al n. 48: si promuova l’impegno di evangelizzazione e di catechesi delle famiglie cristiane, che devono essere le prime educatrici della fede (L.G. 11) e, insieme alla parrocchia, devono sviluppare l’itinerario della iniziazione cristiana e ecclesiale dei fanciulli e degli adolescenti. Nuclei originari della comunione della comunità parrocchiale, esse devono trarre dalla Parola di Dio, proclamata e celebrata nel “santuario domestico” (AA 11), la fonte stessa della comunione familiare.

Si richiama qui il ruolo della famiglia che è oggetto di catechesi perché riscopra la sua identità di santuario domestico, e in quanto tale, soggetto di catechesi e di vita di fede al suo interno e al suo esterno verso la società e verso la Chiesa di cui è cellula.

Al n.41 lo stesso Sinodo afferma infatti: la comunità parrocchiale è l’aggregazione plenaria di più ristrette e preesistenti comunità che, nella “comunione delle comunità”, esprimono e proclamano l’universalità della salvezza, cioè della comunione con Dio e tra i figli di Dio (L.G. 1)

La parrocchia perciò si attiva a curare la famiglia perché riscopra la sua vocazione che le viene della grazia sacramentale del matrimonio, proponendo anche cammini di fede particolarmente per coppie in ascolto della Parola, riunite in piccoli gruppi per un itinerario sistematico e mirato, che aiuti a sviluppare il germe della fede e maturarlo nel servizio del Regno, affidati a coppie di laici o di fratelli come catechisti.

La parrocchia così gradualmente diverrà comunione di comunità; ma si attiva anche al di là di queste esperienze, che soprattutto inizialmente non potranno raggiungere tutti per ovvie ragioni. Sarà attivata una commissione apposita per sensibilizzare con forme e modi da studiare e mettere al centro dell’attenzione pastorale la famiglia, secondo le direttive del Vescovo.

Grazie a Dio sono tanti i sussidi che possono orientare strategie pastorali, soprattutto avvalendosi dell’ultimo documento della CEI: Il direttorio familiare.

CONCLUSIONE

La parrocchia è l’ultima localizzazione della Chiesa, è in un certo senso la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie (Ch. L. n.26).

Il parroco è il pastore il cui ministero di paternità imita il ministero della sintesi, tipico del Vescovo (Mons. Valentini) dal momento che, come dice il Papa, per chiesa locale si intende innanzitutto la diocesi, ma si può intendere anche la parrocchia per cui tutte la prerogative che sono proprie della diocesi per estensione si possono applicare anche alla parrocchia (dal discorso al clero romano, quaresima 92).

La parrocchia, soprattutto, deve tornare ad essere una casa comune, lo strumento efficiente di una carità senza limiti, come senza limiti sono i bisogni dei parrocchiani, dei vicini, che sono pochi, dei lontani, che sono molti (don Mazzolari).

Su queste linee è il nostro cammino, confidando nella forza dello Spirito datore di ogni dono.

Si possa verificare il prodigio della Pentecoste (Atto 2,1-11) per cui pieni dello Spirito Santo possiamo essere tutti capaci di parlare diverse lingue come lo Spirito può darci il potere di esprimerci, di annunciare e di vedere realizzate le grandi opere di Dio.

Il Parroco
Sac. Vincenzo Mango

 

Da “parrocchia e pastorale di lievitazione” di P. Gerardo Cardaropoli, Edizione EDB: La pastorale di lievitazione (pagg. 174-177).

La proposta della seconda evangelizzazione nasce dalla presa di coscienza di dover far fronte a questa situazione, del tutto nuova rispetto al passato, che caratterizza il rapporto chiesa-mondo, nel presente momento storico. La proposta della seconda evangelizzazione non può essere soddisfatta aggiungendo qualche impegno, o modificando in qualche parte la pastorale parrocchiale. Più che aggiungere o modificare, si tratta di avviare a realizzazione quella svolta pastorale, a cui è stato accennato più volte nel corso di queste riflessioni. La svolta non può essere ridotta a un fatto quantitativo; essa deve essere un fatto qualitativo. Si tratta, quindi, non tanto di cambiare quello che si fa, quanto piuttosto di dare un orientamento diverso a quello che già si fa.

La proposta della seconda evangelizzazione, nasce dalla constatazione che, dalla situazione di christianitas, si è passati a una società post-cristiana, che si avvia ad essere anche post-secolarizzata. Questa constatazione, tradotta in termini di uno specifico programma di pastorale parrocchiale, comporta il passaggio dalla pastorale di massa alla pastorale di lievitazione. Più che una scelta, si tratta di un obbligo. Nella situazione di christianitas, la pastorale di massa era efficace, perché rispondeva alle concrete esigenze di quel contesto. Nella società post-cristiana, la pastorale di massa non risponde alle nuove esigenze. Nel nuovo contesto, occorre una pastorale non ambientale o tradizionale, ma fortemente personalizzata. Si tratta quasi di ricominciare daccapo la costruzione della comunità cristiana, partendo dalla mentalità degli uomini di oggi.

Questa espressione non dovrebbe scandalizzare. Già nella celebre catechesi del Mercoledì dell’estate 1976, Paolo VI affermava: “Tutto il lavoro compiuto nei secoli a noi precedenti, non ci esonera dalla collaborazione col divino costruttore; anzi ci chiama, e non solo a un fedele compito di conservazione, e nemmeno di passivo tradizionalismo, né di ostile rifiuto alla perenne innovazione della vita umana; ci chiama a ricominciare daccapo, memori sì, e gelosi custodi di ciò che la storia autentica della chiesa ha accumulato per questa e per le future generazioni, ma consapevoli che l’edificio, fino all’ultimo giorno del tempo, reclama lavoro nuovo, reclama costruzione faticosa, fresca, geniale, come se la chiesa, il divino edificio, dovesse cominciare oggi la sua avventurosa sfida alle altezze del cielo (cf. 1Cor 3, 10; 1Pt 2, 5)”.

La pastorale di lievitazione è sostanzialmente diversa dalla pastorale di èlites. Nella pastorale di èlites, o dei gruppi, le persone vengono aggregate in base a criteri selettivi, e per una certa affinità di esigenze o di ideali. Ciò non può essere compiuto dalla parrocchia, che è la comunità di tutti. Nella pastorale di lievitazione, invece, non esistono altri criteri di aggregazione che la fede in Cristo e la volontà di appartenere alla chiesa. Pertanto, l’invito a rifondare la propria fede viene rivolto a tutti indistintamente; anche se, poi, si avvia una catechesi sistematica soltanto con coloro che intendono impegnarsi liberamente a seguirla, anche con sacrificio. Chi segue, però, questo itinerario non conserva per sé quello che ha ricevuto; ma, per l’intrinseca esigenza del dinamismo evangelico, deve diventare lievito nella comunità ecclesiale ed umana:

A ben riflettere, la strategia della lievitazione rappresenta uno dei fondamentali criteri della storia della salvezza: Con riferimento alla storia di Israele, oltre gli inizi con i patriarchi, ci si può riferire ai profeti e alla funzione messianica del resto di Israele, nelle sue diverse realizzazioni. Si può dire che anche Cristo ha realizzato questo criterio, quando si constata che egli, dopo aver rivolto il suo messaggio/invito alle masse, per via di fatto, incomincia a costruire la chiesa formando il piccolo gruppo dei discepoli, che diventano il pugno di lievito, o il pizzico di sale nella massa dell’umanità. La metodologia della lievitazione rappresenta anche il criterio missionario della chiesa primitiva. Essa veniva attuata privilegiando l’evangelizzazione delle famiglie e l’evangelizzazione personale.

La pastorale di lievitazione non va intesa come alternativa alla pastorale di massa. La parrocchia non può abbandonare la maggioranza dei fedeli al loro destino. Invece, senza venir meno agli impegni fondamentali della pastorale attuale, si tratta di innestare il processo di personalizzazione della fede, i cui effetti potranno essere constatabili soltanto a distanza. Ciò comporta il coinvolgimento iniziale di singole persone, le quali gradatamente coinvolgeranno i membri della propria famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro, ecc. Si tratta, in ultima analisi, di sperimentare a livello di parrocchia quanto fanno già, non soltanto i movimenti e i gruppi, ma anche quanto fanno alcune sette ben conosciute. Naturalmente, dalla pastorale di lievitazione è assente ogni forma di fanatismo, perché è finalizzata alla lievitazione; non si tratta, cioè, di creare gruppi chiusi, più o meno fanatizzanti; ma si tratta di credenti che sentono e vivono unicamente il senso della chiesa, e intendono impegnarsi per la chiesa. Un buon avvio si ha già in quelle parrocchie che stanno sperimentando i centri di ascolto nelle famiglie. Potenziando questo esperimento, si potrebbe avviare un tipo di pastorale decentrata e coordinata: durante la settimana, essa privilegia le case, i palazzi, i rioni,; alla domenica, essa privilegia il centro parrocchiale.

La pastorale di lievitazione, pur senza enfatizzazione, può rappresentare una delle vie più efficaci per la seconda evangelizzazione. Per maggiore precisione, si può dire che la seconda evangelizzazione può essere realizzata, privilegiando le fasce estreme: da un lato, essa ha bisogno della nuova inculturazione del Vangelo, che coinvolge l’impegno, oltre che dei pastori, anche degli studiosi, nonché il coinvolgimento dei mass media; dall’altro lato, essa fa leva sulla responsabilità delle singole persone e delle singole famiglie, riducendo la fiducia nelle istituzioni.

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