“Il Duomo è la ferita aperta della città”. Bastano poche parole al card. Giuseppe Petrocchi, arcivescovo metropolita de L’Aquila, per descrivere la ricostruzione post-sisma. Dieci anni dopo il terremoto del 6 aprile 2009 che devastò il capoluogo abruzzese, la cattedrale metropolitana dei Santi Massimo e Giorgio, sede vescovile e principale luogo di culto per l’Aquila, è un cantiere fermo. E non è l’unico. “Ma gli aquilani – aggiunge subito dopo – sono gente tenace, di montagna, che non si arrende.
La città è stata devastata, rasa al suolo, da cinque o sei terremoti, eppure sulle sue mura non è stata mai issata nessuna bandiera bianca. È sempre risorta animata da una fede e da valori umani radicati in un’esperienza forte.
Nella gente aquilana, nel gene di questa comunità ecclesiale e civile vive un alto indice di resilienza. E io sono onorato di esserne il pastore”.
Incontriamo il cardinale a margine della seconda tappa della Giornata nazionale organizzata dall’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l’edilizia di culto della Cei in svolgimento a L’Aquila (fino ad oggi) sul tema “Manutenzione e prevenzione. La tutela delle persone”. Nella serata di ieri i circa 120 partecipanti provenienti da moltissime diocesi della Penisola hanno potuto direttamente constatare, tra i vari sopralluoghi, le condizioni del Duomo, aperto eccezionalmente grazie al permesso delle Istituzioni: i resti, privi di copertura, si presentano ingabbiati e messi in sicurezza per evitare altri crolli. Ma forse si comincia a vedere un po’ di luce in fondo al tunnel. Stefano D’Amico, del Segretariato regionale del Mibac (Ministero per i beni e le attività culturali) per l’Abruzzo, salutando i convegnisti ha dichiarato che “stiamo acquisendo il progetto esecutivo del Duomo così da andare a gara”. Fiducioso ma cauto il cardinale: “speriamo non resti solo un annuncio”. Poco prima il sindaco de L’Aquila, Pierluigi Biondi, aveva denunciato:
“La somma di interessi singoli e non comunitari è il peccato originale della ricostruzione”.
“Le chiese, i luoghi di culto, sono punti di riferimento delle comunità colpite e per questo non possono restare fuori dai programmi di ricostruzione. Essi sono necessari per ristabilire un legame identitario della popolazione con la propria terra”. Parole che non sono sfuggite all’arcivescovo Petrocchi che rilancia: “il Duomo raccoglie e rappresenta – poiché ne è il simbolo – tutte le nostre chiese colpite dal terremoto che attendono di essere ricostruite. Il Duomo è una sorta di enciclopedia nella quale si possono individuare i problemi che hanno toccato anche altre strutture. La situazione nella diocesi è molto grave perché abbiamo circa 240 chiese colpite”.
Eminenza a che punto è la loro ricostruzione?
Si va avanti con enorme lentezza, come tutta la ricostruzione pubblica, e senza particolari risultati visibili e significativi. Molte chiese sono state sostituite da strutture di legno. Nate per essere provvisorie oggi stanno diventando, nella percezione delle nostre comunità ecclesiali, permanenti. E con tanta sofferenza. Le chiese sono luoghi identitari e di aggregazione per la gente locale.
La mancanza di chiese determina apnee aggregative con conseguenti asfissie comunitarie difficilissime da recuperare.
Mi commuove il fatto che moltissima gente, credente e non, viene da me a chiedere di riavere la chiesa. Purtroppo non abbiamo nessuna possibilità se non quella di andare insieme a bussare alle porte delle Istituzioni pubbliche.
A cosa è dovuta tutta questa lentezza?
A norme non chiare che mettono a rischio i funzionari che sono chiamati ad interpretarle e a metterle in campo. Costoro hanno timori e agiscono con sistemi prudenziali e di autotutela, del tutto comprensibili, che comportano allungamenti nella tempistica e continue richieste di dati senza che si arrivi a delle decisioni. Così alcune volte le scelte vengono varate quando il profilo che dovevano trattare è del tutto cambiato. Si determinano labirinti giuridici che non solo non aiutano la ricostruzione ma la complicano e la deteriorano.
Per questo credo che il comparto normativo vada rivisto con senso critico. Che non vuol dire derogare alla legge, anzi. Sulla base dell’esperienza, significa rielaborare una lettura normativa più saggia, attinente ai fatti e priva di sovrapposizioni.
Occorre calare i principi generali della ricostruzione nel concreto. È come un sarto che si attiene solo ai principi del taglio e del cucito senza tenere conto della statura del cliente.
Questo cortocircuito normativo che altri effetti ha prodotto nell’iter della ricostruzione?
Direi almeno tre effetti: moltiplicazione dei tempi di intervento, dei danni (nel frattempo ci sono stati altri terremoti e danni ambientali) e dei costi. Quando le norme studiate a tavolino non rispondono alle esigenze di un territorio producono una devastazione nella devastazione. Esse devono dialogare con le sedi dove queste poi andranno applicate. Urge un dialogo fattivo, una sinergia di progettualità che possono determinare profili giuridici efficaci e capaci di dare risposte concrete.
Chiediamo una ricostruzione rapida, condotta bene e soprattutto legale.
Serve un cambio di passo e di criteri: meno burocrazia e maggiore capacità di creare centrali capaci di prendere decisioni rapide grazie a poteri di scelta.